Come capire se un'azienda è in crisi già dai primi "sintomi"? Come salvaguardare le attività imprenditoriali più meritevoli che si trovano a navigare (per un periodo di tempo ristretto) in acque agitate?
È con questa obiettivo di fondo che, agli inizi del 2019, il legislatore italiano ha messo a punto la più grande riforma del diritto fallimentare da decenni: si tratta del nuovo "Codice della crisi e dell’insolvenza" (Decreto Legislativo n. 14 del 12 gennaio 2019), ovvero un complesso di 391 articoli, pubblicato in Gazzetta Ufficiale nel febbraio del 2019, la cui entrata in vigore è prevista il 15 agosto del 2020 (posticipata di sei mesi, al 15 febbraio 2021 se si è titolari di una microimpresa).
Secondo la legge italiana, si tratta di una fase di difficoltà economico finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per l’impresa si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate.
A differenza dell'insolvenza, questo stadio non è quindi visto come irreversibile, ma come una fase di difficoltà momentanea e, pertanto, superabile attraverso un intervento nella gestione interna. A sostegno dell'imprenditore ci sarà prima di tutto un intervento di prevenzione della crisi e poi, nel caso peggiore, una serie di azioni che lo aiuteranno ad uscirne.
Premesso che, come abbiamo anticipato, l’obiettivo della riforma è di preservare quanto più possibile l'attività aziendale in crisi a causa di particolari contingenze, vediamo nel dettaglio quali sono le azioni da intraprendere per evitare la bancarotta.
In base al nuovo Codice, tutte le aziende dovranno dotarsi di un apparato di controllo, sia organizzativo, che amministrativo e contabile, grazie al quale sarà più semplice intercettare in anticipo la crisi attraverso alcuni strumenti d’allerta. Questo darà all’azienda la possibilità di intervenire per tempo e, nell’ipotesi più rosea, rimettersi in sesto.
Si tratta di una sorta di "kit per la diagnosi" di cui tutte le imprese dovranno dotarsi per mettere sotto osservazione i budget di cassa (per il breve periodo) e i business plan (per orizzonti medio-lunghi). Obiettivo: rilevare eventuali segnali di crisi e impostare una strategia per riportare i conti in equilibrio economico, anche con un apposito piano di risanamento.
Vediamo ora nel dettaglio cosa cambia rispetto al passato.
Al di là dei singoli provvedimenti, la riforma del fallimento rappresenta una vera e propria rivoluzione in termini di cultura aziendale. Pensiamo ad esempio al termine “fallimento” che per la prima volta viene bandito e sostituito con l’espressione “liquidazione giudiziale”. È già successo in altri Paesi d'Europa e ora anche l'Italia si allinea all’esigenza di evitare la connotazione negativa e il discredito che si accompagna alla parola “fallito”.
Abbiamo prima parlato delle aziende che si trovano in crisi per cause contingenti, per quelle invece che non hanno margini ragionevoli di sopravvivenza, si punta a dare un taglio alle lungaggini che hanno da sempre caratterizzato le storie di fallimenti aziendali, spesso archiviate dopo anni, e con tassi di recupero dei creditori vicini allo zero.
In generale, con la riforma del fallimento:
Un'ulteriore importante novità riguarda le società a responsabilità limitata. Per la prima volta viene riconosciuta la responsabilità degli amministratori delle società a responsabilità limitata verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale.
Come leggiamo nel quinto comma all’art. 2476 del Codice Civile:
Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La rinunzia all’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi.
In parole più semplici: se una società a responsabilità limitata entra in stato di crisi e l’amministratore non ha predisposto in società gli strumenti indicati dalla legge per prevenirla, quest'ultimo ne risponde personalmente, quindi anche con il suo patrimonio personale. Elemento che non ha mancato di sollevare critiche, soprattutto tra coloro che vedono questa novità come un possibile deterrente per la nascita di nuove piccole imprese. Senza contare che i costi per adempiere agli obblighi imposti dal nuovo Codice sono molto importanti: solo nel 2010, sulle micro e sulle piccole e medie imprese, stime della CGIA di Mestre parlano di una stangata da 3,2 miliardi di euro.